XVIII. Miss (you) Sarajevo, ep. 1
Verso il 25° compleanno della canzone di U2 e Pavarotti. Al via con il racconto di Enrico Sciannameo, architetto e autore di un progetto urbanistico nella capitale bosniaca assediata dal '92 al '96
Ciao,
bentornata o bentornato a BarBalcani, la newsletter che dà voce alle storie dai Balcani occidentali alla vigilia dei 30 anni dall’inizio delle guerre nell’ex-Jugoslavia.
Sì, hai letto bene. Episodio 1.
Questa tappa di BarBalcani sarà un po’ come Star Wars. Della trilogia originale, ça va sans dire.
È una prima volta assoluta nel nostro cammino. Un buon momento per invitare nuovi adepti, non credi?
Ecco il tasto per condividere BarBalcani, appena prima della partenza.
Invitata la mamma? O insomma, la prima persona che ti è venuta in mente?
Vedrai che non la deluderai!
Portata a termine la prima missione, siamo pronti per scoprire di cosa parleremo oggi.
Siamo alle porte del 25° anniversario di “Miss Sarajevo” degli U2 e Luciano Pavarotti. Cadrà il 20 novembre.
Questa tappa/trilogia sarà quindi un cammino di avvicinamento a quel giorno.
Per raccontare quello che si nasconde dietro uno dei più grandi capolavori musicali e non degli anni Novanta. O forse di tutto il 20° secolo.
Si comincia!
Assedio ai civili
Parlare di “Miss Sarajevo” senza spiegare l’assedio di Sarajevo sarebbe come studiare il “Guernica” senza sapere che in Spagna ci fu la guerra civile.
Dunque, partiamo dal presupposto che fu il più lungo assedio della seconda metà del secolo scorso.
Dobbiamo tornare indietro al 5 aprile 1992. Lo scenario è la guerra in Bosnia ed Erzegovina, il conflitto etnico tra serbi, croati e bosgnacchi (ne abbiamo parlato nella 16ª tappa - “Guerre da freezer”).
Sull’assedio che durò fino al 29 febbraio 1996 (ben oltre la pace di Dayton), ci sarebbero milioni di cose da dire: se vuoi approfondirle, questo è il link che fa per te.
Qui ti basterà sapere che il governo bosniaco (che aveva dichiarato l’indipendenza dalla Jugoslavia) si scontrò con l’Armata Popolare Jugoslava e le forze serbo-bosniache (che volevano creare la Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina)
In quasi 4 anni di assedio, come sempre accade, furono i civili a subire le conseguenze maggiori. Le vuoi riassunte in pochi numeri rappresentativi? Eccoli:
12 mila morti. Come l’Arena di Verona piena.
42.500 feriti. Più dell’Allianz Stadium di Torino sold-out.
Gli abitanti nella capitale passarono da 520 mila a 335 mila. Un cittadino su tre non era sopravvissuto o era fuggito.
C’è un episodio che ha ricordato al mondo che più di qualcuno, in quel conflitto senza senso, stava morendo.
E si dà il caso che proprio quell’episodio sia il motivo per cui oggi abbiamo iniziato questa tappa un po’ particolare.
È il concorso di bellezza “Miss Besieged Sarajevo 1993” - Miss Sarajevo Assediata.
Si tenne sotto le bombe, in uno scantinato. Delle 12 ragazze che si presentarono, quasi tutte avevano cicatrici da schegge sulla propria pelle.
Fu incoronata reginetta la diciassettenne Inela Nogić, che ai giornalisti disse: «Non ho piani per il futuro. Non so nemmeno se domani sarò ancora viva».
Alla fine le ragazze sfilarono con uno striscione che diceva: Non lasciate che ci uccidano. Un messaggio disperato al mondo di non abbandonare Sarajevo al proprio destino.
Era il 23 maggio 1993.
Passarono due anni e l’appello fu raccolto dalla band irlandese U2 e da Luciano Pavarotti.
Sotto lo pseudonimo di Passengers, il 20 novembre 1995 pubblicarono il singolo “Miss Sarajevo”.
L’avevano suonata per la prima volta il 12 settembre al parco Novi Sad di Modena.
La canzone: una denuncia dell’incapacità della comunità internazionale di fermare l’assedio. Il video: un pugno nello stomaco, con le immagini inedite delle macerie, del concorso di bellezza e del viso sorridente - nonostante tutto - di Inela Nogić.
Ora però calma.
Ci sono molti tasselli da inserire per capire fino in fondo la storia di “Miss Sarajevo”.
In primis, quello che spiega cosa la città rappresentasse nella vita dei suoi abitanti.
Iniziamo a scoprirlo chiacchierando con il nostro primo ospite. Una persona speciale, da trattare coi guanti di velluto. Un coinquilino e un amico vero.
Diamo il benvenuto a BarBalcani a Enrico Sciannameo. A lui una sedia e la parola nel cuore di questo primo episodio!
Reato di urbicidio
Enrico, cosa ti porti dentro dalla tua esperienza a Sarajevo?
“Aver potuto conoscere l’anima di quella che è un po’ la Venezia dei Balcani. Una città complessa, poliedrica, un miscuglio di religioni ed etnie che convivono.
Questa è l’identità di Sarajevo. Questo è stato l’obiettivo della guerra.
C’è da capire una cosa. Tutti i luoghi che rappresentavano questa identità sono stati colpiti. Ma non come effetto collaterale, proprio come oggetto ideologico.
Ci sono alcuni esempi che lo dimostrano.
Il primo: gli impianti delle Olimpiadi invernali del 1984. Il padiglione, le residenze, perfino la pista da bob è stata vandalizzata. Ancora oggi si vedono i buchi dei proiettili delle esecuzioni sommarie sul podio olimpico.
Colpirli non aveva un senso pratico, ma solo e puramente simbolico. Nelle Olimpiadi la coesistenza tra etnie e la natura multiculturale della capitale bosniaca avevano raggiunto l’apice, sotto i riflettori del mondo intero.
Poi c’è la moschea di Gazi Husrev-beg, colpita circa cento volte per lo stesso motivo. O ancora la biblioteca nazionale, la Vijećnica, con il suo stile post-austroungarico: dentro c’era il patrimonio collettivo degli abitanti di Sarajevo.
Non parliamo più di distruzione “collaterale” di una città, come in tanti assedi della storia contemporanea. Parliamo proprio di urbicidio”.
Potresti spiegarci meglio questo concetto dell’urbicidio?
“Con urbicidio si intende la violenza spaziale contro l’ambiente costruito. Distruggere lo spazio fisico per annientare l’identità di un popolo.
Questo termine per definire l’attacco alle città durante le guerre nell’ex-Jugoslavia è stato coniato da Bogdan Bogdanović. Occhio, non il giocatore di basket, il sindaco di Belgrado negli anni Ottanta, poi dissidente ed esiliato a Vienna.
Ed è proprio la città l’obiettivo della guerra, per ciò che rappresenta a livello ideologico e simbolico. Perché non è solo un luogo fisico, ma soprattutto lo spazio dove si concretizzano le relazioni sociali ed economiche.
Per capirci, il sociologo e urbanista Henri Lefebvre ha teorizzato il diritto alla città: lì è dove le classi sociali si incontrano e si trasformano le relazioni sociali.
Nel caso di Sarajevo, però, non solo la città è stata distrutta per il suo carattere fisico e simbolico. C’è stato di più.
La città è diventata anche lo strumento della guerra, parte attiva del conflitto. Con le sue montagne, gli edifici e le strade, era lo scenario e allo stesso tempo determinava le condizioni dell’assedio”.
Il cuore pulsante di Sarajevo
Quindi la città come condizione che determina la guerra, dicevamo.
“Esatto.
Sarajevo è una città cresciuta in modo lineare lungo una strada dritta. Se la percorri dal centro verso l’esterno, puoi leggere tutta la sua storia.
È fatta “a recinti”, cioè a nuclei. Il cuore ottomano, con le moschee, si è poi espanso e nel centro storico si sono aggiunte le sinagoghe e le chiese cristiane.
Continuando a percorre la linea storica e urbanistica, si passa alla zona austro-ungarica, che con il suo ordine ricorda un po’ Vienna.
Poi si arriva nella zona costruita dalla prima guerra mondiale in avanti. L’architettura prende le caratteristiche più sovietiche, con la sua classica scala enorme: i viali larghi, i palazzoni che si alternano a mega-strutture.
Da lì comincia anche quella che è stata definita durante la guerra la Sniper Alley.
Il viale dei cecchini.
In questa zona il tessuto si dirada al punto che dalle montagne attorno alla città i cecchini serbi potevano puntare con facilità chi attraversava i vialoni. Per fare massacri mirati.
Era il tessuto urbano stesso a determinare le condizioni dell’assedio, dicevamo. La stessa cosa non poteva accadere nel centro, perché lì il tessuto è troppo denso.
Alla fine della Sniper Alley ci sono alcune zone chiave. L’Holiday Inn, dove risiedevano i giornalisti europei. Le Tito Barracks, un accampamento militare. E l’ambasciata statunitense. Le forme di potere, tutte lì”.
E quindi cosa ci facevi a Sarajevo in quell’ottobre 2017?
“L’Ordine degli architetti di Bosnia ed Erzegovina aveva aperto un bando d’interesse per riqualificare la zona delle Tito Barracks, ormai in degrado.
Così l’ho collegato alla mia tesi di laurea magistrale al Politecnico di Milano. Mi sembrava stimolante che un progetto di tesi potesse unire tessuti fisici diversi e allo stesso tempo fare da aggregatore sociale.
Dietro al disegno architettonico dell’edificio c’era tutta un’investigazione sull’anima e la configurazione storico-identitaria della città.
La mia idea è stata quella di reinterpretare l’architettura di Sarajevo. I recinti sono il punto di partenza, combinati con gli edifici senza contesto, l’espressione di determinate forme di potere.
È per questo che, in un luogo simbolico per la guerra, ho disegnato la sede dell’Università come un nuovo recinto che ingloba torri isolate.
Dove 25 anni fa ti potevano sparare se camminavi per strada, oggi lo spazio può unire le diversità culturali di Sarajevo. Un edificio che può diventare polo aggregatore delle relazioni sociali. Dal male di un tempo, al bene di adesso”.
Puoi scoprire il progetto di Enrico cliccando semplicemente sul rendering qui sotto:
La martire dei libri
Già, l’Università.
Anche Aida Buturović la frequentava in quegli anni di morte a Sarajevo. Corso di letterature comparate. Era una delle studentesse migliori.
Parlava cinque lingue, amava la cultura e i libri. Era conosciuta in città come la bibliotecaria della Vijećnica.
Quella che un tempo era la Biblioteca Nazionale di Sarajevo custodiva oltre un milione e mezzo di volumi. Più della Braidense di Milano o della Marciana di Venezia, per intenderci. L’espressione di tutte le componenti della società bosniaca.
La Vijećnica era a metà via tra l’anima musulmana, il cuore slavo e il rigore austro-ungarico. Era lo spirito di Sarajevo, concretizzato in mattoni e carta.
Li amava così tanto i libri, Aida, da sacrificare la sua stessa vita.
Solo per salvarli.
Quando iniziò l’assedio di Sarajevo, uno degli obiettivi dell’artiglieria serba fu proprio la Vijećnica.
Le granate colpirono l’edificio il 25 agosto e Aida conosceva bene il valore della perdita. Mentre la gente fuggiva, lei fece il percorso inverso. Entrò nella sezione storica, in mezzo all’incendio, e recuperò alcuni dei tomi più antichi e preziosi.
Riuscì anche fuggire in strada. Ma poi un’altra granata scoppiò, le schegge volarono e una la colpì alla testa.
Aida Buturović morì sul colpo.
Di tutto il patrimonio della biblioteca, 9 libri su 10 andarono perduti.
Finita la guerra, l’edificio fu ricostruito in 5 fasi, dal 1996 al 2013. Oggi è il municipio e una targa ricorda la martire dei libri.
Così ha detto un suo collega: “Era morta da eroina, certo. Ma, citando la canzone degli Stranglers “No more heroes”, la Bosnia ne aveva avuti già troppi di eroi”.
Mezzofazione. Sul bancone di BarBalcani
Siamo arrivati alla fine del primo tratto di strada verso “Miss Sarajevo”. Ora è tempo di un po’ di ristoro.
Concediamoci una “mezzofazione” in questo viaggio (credits: Pippo Civati e Massimiliano Loizzi).
Che non è una prefazione, né una postfazione. No no, è proprio una mezzofazione. Come altro dovrebbe chiamarsi una pausa alcolica in mezzo al racconto?
Già conosci le tradizioni. A guidarla è il nostro ospite, appena tornato al bancone per consigliarci il meglio dalla capitale bosniaca.
Enrico, a te la parola!
“Parlavamo di architettura, no? E allora anche la mia pillola alcolica sarà a tema.
Vi porto nella Sarajevska Pivara, la fabbrica/birreria di Sarajevo. Uno stabilimento del 1864, quando la Bosnia ed Erzegovina era un protettorato austro-ungarico.
Mura rosso mattone all’esterno, stanzone monumentale interno che ti catapulta indietro nel tempo grazie alle stampe sulla storia della birreria. E poi la Sarajevska Pivara si trova in un luogo nevralgico, di fronte alla Biblioteca Nazionale.
Qui si può bere la birra classica della Bosnia, la Sarajevsko Pivo. Una birra chiara e leggera. Imbottigliata proprio qui, nella birreria della capitale.
Perché ogni edificio a Sarajevo, anche quando pensi solo di prenderti una birra, tiene racchiuso un pezzettino della complessa storia di questa città”.
Gambe in spalla, riprende il viaggio di BarBalcani! Ci rivediamo fra una settimana, per il 2° episodio…
Un abbraccio e buon cammino!
«Here she comes,
heads turn around.
Here she comes,
to take her crown»- “Miss Sarajevo”
Passengers (U2 & Pavarotti) -
Oggi più che mai, ti ringrazio per la fiducia che riservi al nostro viaggio. Se ti fossi perso qualche tappa, qui puoi recuperarle tutte.
Se non l’avessi fatto proprio all’inizio, spero che questa prima parte di tappa alla fine ti abbia convinto a invitare anche solo una persona a te cara a iscriversi alla newsletter.
Ma senza dover scrollare fino ad Han Solo, ti lascio di nuovo il tasto, insieme a quello per condividere questo post. Conosci meglio di me l’uso migliore che puoi farne!
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