XIX. Miss (you) Sarajevo, ep. 2
Intervista esclusiva a Bill Carter, il regista che nel 1993 si trovava nella capitale assediata. Contattando gli U2, portò le voci di Sarajevo in tutta Europa e permise la nascita della canzone
Ciao,
bentornata o bentornato a BarBalcani, la newsletter che dà voce alle storie dai Balcani occidentali alla vigilia dei 30 anni dall’inizio delle guerre nell’ex-Jugoslavia.
Siamo partiti la settimana scorsa in questa avventura a episodi in stile Star Wars.
Sulla strada verso il 25° anniversario di “Miss Sarajevo”.
Ti sei perso il primo episodio? Nessun problema, lo puoi recuperare qui.
Noi intanto, per ingannare l’attesa, possiamo invitare nuovi adepti a BarBalcani usando questo tasto:
Il trailer del secondo episodio dovrebbe bastare a convincerti a chiamare a raccolta amici e familiari. Anche con i popcorn, se proprio proprio…
Sei pronto? Sei pronta? Stai per scoprire uno dei più grandi segreti nascosti dietro al capolavoro degli U2 e Luciano Pavarotti. Sempre più vicini al suo compleanno
A BarBalcani è appena entrato Bill Carter. Il regista, lo scrittore, l’uomo che ha permesso che tutto questo accadesse.
Cala un religioso silenzio.
A lui la parola.
Should I stay or should I go
Bill, è un onore averti con noi. Raccontaci un po’ di quel 1993: perché eri a Sarajevo?
“La verità? Beh, questa domanda per me si divide in due. Perché partii e perché rimasi.
La prima risposta: perché stavo cercando di riempire un buco dentro di me. Non ne ho parlato volentieri per molti anni.
Mi trovavo in Croazia ed ero pronto con lo zaino in spalla, senza soldi. Diciamo che volevo solo essere d’aiuto. Un puro istinto, non sapevo nemmeno cosa stessi facendo.
Penso che l’energia fosse legittima, perché ero sincero. Così partii, ma all’inizio non riuscivo nemmeno a trovare nessuno che accettasse il mio aiuto!
Poi trovai l’organizzazione The Serious Road Trip. Era un’attività molto pratica: distribuivamo cibo. E pian piano, aiutando le persone, diventavo loro amico”.
E poi?
“Perché rimasi? È facile. Perché quando sei in quelle situazioni, devi rispondere rapidamente a una sola domanda: ho intenzione di essere utile?
Perché se vuoi solo guardare, sei un turista in tempo di guerra. E se hai un’anima, non lo accetti. Ma se hai l’occasione di aprire gli occhi mentre ti rendi utile, allora tutto cambia.
È così che mi resi conto, vidi, provai sulla mia pelle esperienze terribili. Volevo fare di più: dalla Croazia mi feci spedire una telecamera a Sarajevo. Avevo bisogno di registrare tutto ciò che i miei occhi stavano vedendo”.
Cosa avevi in mente?
“Non volevo realizzare un film lì per lì. Non erano i tempi di Final Cut o Adobe Premiere, un film costava e io non avevo soldi.
Decisi di registrare la gente di Sarajevo come un archivista, come un etnografo. Registrare per portare testimoni e salvare la storia orale.
Pian piano il girato iniziava a prendere una sua forma. Con scene di vita vissuta, spettacoli musicali, luoghi della città.
E poi, certo, tutto cambiò con gli U2”.
It’s a trap!
Potrebbe essere arrivato il momento di raccontarci come è avvenuto l’incontro con gli U2, che dici?
“Certo, questa è una storia divertente!
Allora, li avevo sentiti rilasciare un’intervista in cui parlavano di «un’Europa unita». Era ridicolo: i Balcani stavano andando in fiamme!
Da ragazzo ero cresciuto con gli U2, così semplicemente pensai: «Beh, sono irlandesi, loro ne sanno qualcosa di tensioni etniche e religiose, e di come siano manipolate per la guerra. Li devo contattare».
Sapevo che però non mi avrebbero mai parlato, in fondo io non ero nessuno.
Così chiesi a un direttore di una televisione che conoscevo di darmi un pezzo di carta intestata per mandare loro un fax. Ci misi una settimana.
Praticamente ho bluffato. Alla grande.
Scrissi loro di essere il direttore della TV e che volevamo fare un’intervista alla band in occasione del concerto a Bologna. Il problema è che “io” non potevo perché ero musulmano e mi avrebbero sparato al checkpoint.
Però avevamo questo collaboratore, Bill Carter, che sarebbe potuto invece uscire da Sarajevo per fare l’intervista”.
E in questo modo riuscisti a intervistarli?
“Esatto. Risposero che l’avrebbero fatta sicuramente. Ma Bono non realizzò che io non fossi bosniaco fino a quando non gli parlai davvero davanti alla telecamera.
Nel momento in cui se ne rese conto, scattò una molla. Capì che a Sarajevo stava succedendo qualcosa di diverso da quello che aveva in mente.
E fu allora che la conversazione iniziò davvero. Quella sera rimanemmo a discutere di cosa potessimo fare fino alle 3 di notte.
Fui molto onesto con loro. Gli spiegai che i soldi non avrebbero risolto il problema della guerra in Bosnia e dell’assedio a Sarajevo.
Dovevamo penetrare nelle menti degli europei. Ma io non sapevo come fare.
Così Bono disse: «Verremo a suonare a Sarajevo». Sì, sarebbe stato fantastico. Ma gli feci notare che migliaia di persone, compresi loro, avrebbero rischiato di morire.
È in quel momento che mi venne l’idea di usare il satellite”.
In che modo?
“Usammo un collegamento in presa diretta per tenere la band al sicuro durante i loro concerti, a partire dall’Italia. Ma nello stesso tempo portammo Sarajevo in tutta Europa.
Nel bel mezzo dello Zoo TV Tour, che fosse a Milano o Roma o in un’altra città europea, gli U2 stabilivano un collegamento con me e… boom! Sul maxischermo comparivano i cittadini di Sarajevo.
Lasciavamo parlare per un po’ queste persone, in modo che gli europei potessero capire che i bosniaci erano semplicemente esseri umani, magari della loro stessa età.
Scegliere le persone divenne il mio lavoro. Ed era difficile. Perché molti erano giustamente arrabbiati, ma noi avevamo bisogno di voci franche e oneste, che invitassero l’Europa ad ascoltare.
Per i cittadini di Sarajevo era l’occasione di raccontare le loro storie. Quell’esperienza era come una botta di adrenalina. La capitale bosniaca era estremamente isolata, qualsiasi contatto con il mondo esterno sarebbe stato travolgente.
Ma mettere nelle loro orecchie il concerto, connetterle a decine di migliaia di persone, li sconvolgeva. Perché si rendevano conto che era qualcosa di reale, stava succedendo davvero nella loro vita. Ed era magico!”
Scrivimi una canzone
Così nacque anche l’idea di realizzare il film “Miss Sarajevo”?
“Sì, durante quella chiacchierata l’idea di realizzare un film si materializzò istantaneamente. «Puoi farlo nel nostro studio in Irlanda», mi dissero. Io fui scioccato, non me l’aspettavo. Ma da quel momento ogni cosa fu possibile.
Fu a quel punto che incontrai Alma, la giovane ragazza, il filo rosso del film: tutte le immagini sono collegate da quell’ora in cui parlai con lei faccia a faccia. È l’anima stessa del film. Nel momento in cui la conobbi, capii di avere un film.
Qualche tempo dopo, mentre stavo montando il film a Dublino, nello studio degli U2, ero ancora troppo fresco dai ricordi della guerra. Stavo cercando di dargli un tocco surrealista, quasi umoristico, perché la parte oscura sarebbe emersa da sola.
Bono mi fece andare a casa sua e mi disse: «Chiama il documentario “Miss Sarajevo” e ti scriverò io la canzone della colonna sonora». Non c’era molto da pensare! «Certo che lo chiamerò “Miss Sarajevo”», gli risposi.
Riconosco la stessa idea che un’intera città, un intero Paese stava combattendo per difendere qualcosa a cui non aveva intenzione di rinunciare: fidarsi l’uno dell’altro, vivere insieme, a prescindere dalle differenze etniche”.
La canzone, dicevamo.
“Non avevo altre idee per il titolo in quel momento. Anzi, quelle che avevo erano terribili. Poi arrivò Bono con “Miss Sarajevo”.
Sarò sincero. Non mi piaceva all’inizio il titolo, mi sembrava troppo “pop”.
Ma mi promise di portare un carico emotivo fortissimo al film. Accettai, anche se per un mese o due non mi sembrò accurato. Fino a quando non incontrai Alma: lei diventò la mia Miss Sarajevo.
E poi Bono mi cantò quella canzone al telefono…
«È incredibile, funziona! Non cambierei il titolo per nessun altro al mondo», gli dissi. Pensai che “Miss Sarajevo” fosse una grande metafora per la Bosnia, per Alma e per quell’episodio del concorso di bellezza.
Ho imparato questo negli anni: Bono è eccezionale a catturare i momenti in qualche parola, in una canzone o in un titolo”.
E se oggi dovessi descriverla in tre parole?
“È poetica, perché puoi emozionarti anche solo con il testo. Provvidenziale, perché ha catturato lo spirito di quel tempo.
E meravigliosa. Dai, il rock and roll e la musica operistica, non sono proprio due generi fratelli. Ma hanno funzionato perfettamente!”
Bellezza resistente
Cosa ne pensi dell’episodio da cui è scaturito il titolo, il concorso di bellezza?
“Il giorno in cui si tenne il concorso di bellezza “Miss Besieged Sarajevo 1993” ci furono intensi bombardamenti. Non aveva senso un evento come quello, in un giorno come quello.
Allo stesso tempo, però, aveva perfettamente senso. Quel dadaismo, surrealismo, che è una sorta di caratteristica di Sarajevo e dei Balcani in generale.
C’è poi da riconoscere che quello striscione, “Don’t let them kill us”, fu molto potente.
Nel film ho intervistato una donna che ha spiegato perfettamente il significato nascosto di quell’evento. Ha detto una cosa a cui nessuno pensa, o che nessuno ha il coraggio di dire a voce alta:
«La bellezza delle donne balcaniche è riconosciuta. Ma noi la vediamo come una forma di difesa, la nostra maniera di combattere».
Fare un concorso di bellezza in mezzo a una guerra, quella guerra dove tutta la città era sotto assedio, era difficilissimo. Non potevano permettersi nulla, ma lottarono lo stesso per farlo.
Il concorso è ciò che le persone ricordano. Ma la verità è che “Miss Sarajevo” incarnò lo spirito della città: «Noi sopravvivremo». Anche con la bellezza”.
La tua esperienza più toccante a Sarajevo?
“Quella che mi è rimasta più impressa è legata all’idea del condividere.
Per un periodo di tempo ho vissuto con una famiglia ed ero molto legato a due sorelle. Ogni volta che tornavo, ci sedevamo a tavola e mangiavamo un pollo, carote e cipolle. Sono stati i pasti migliori della mia vita.
E anche per loro. Quando tornai a Sarajevo nel 2018, andai a trovarli e tutti parlavano ancora di quando mangiavamo insieme. Condividevamo un solo pollo anche in quattro famiglie, ma almeno stavamo tutti insieme”.
E la più terribile?
“Ho visto tantissime cose orribili: persone morire, arti mozzati, gli ospedali.
Ma la più terribile a livello emotivo è il retro della medaglia della condivisione. Spesso condividevano l’ultima cosa che avevano: l’ultima scatoletta di tonno, l’ultima tazza di caffè, solo per passare del tempo insieme a parlare.
La cosa più triste è proprio quel concetto di “ultimo”.
Una volta stavo camminando con un amico a Sarajevo. Mi raccontò la storia di un uomo che viveva con la sua famiglia in centro, con i propri figli e nipoti: dodici persone nella stessa casa. Lui era il capofamiglia.
Va ricordato che a quel tempo ogni casa a Sarajevo aveva una “stanza sicura”. Cioè, non è che fosse proprio sicura. Diciamo che lo era di più delle altre dal tiro dei cecchini.
Un giorno tutta la famiglia era in casa e quell’uomo decise di fare il caffè per tutti. I suoi figli gli dissero di non andare in cucina. Non era sicura. Ma lui ci andò lo stesso.
Mentre stava preparando il caffè, una bomba cadde e investì la piccola finestra della “stanza sicura”. Morirono tutti. Ma non lui. Ora è vivo, la sua famiglia no, solo perché voleva condividere con loro un “ultimo” caffè.
Sarajevo è come una ferita che cammina. Sta tutto sotto la superficie. Un terribile ricordo persistente, ossessionante, vivo e ancora visibile dell’assedio”.
Fine tappa. Sul bancone di BarBalcani
Siamo arrivati alla fine anche del secondo tratto di strada verso “Miss Sarajevo”. È tempo di nuovo di un po’ di ristoro.
Potrà sembrare paradossale, ma anche chi ha vissuto un assedio ha qualcosa da consigliare al bancone di BarBalcani.
Stiamolo ad ascoltare, prima che riparta per la sua strada.
Bill, torniamo indietro al 1993.
“Ho passato molto tempo a bere caffè, the o birra. Sono stato in una miriade di café con tantissime persone che probabilmente prima di berci insieme quel caffè non avevo mai incontrato.
I bosniaci sono tra le persone più ospitali e gli abitanti di Sarajevo i più aperti: sono nati ospiti, ti vogliono conoscere, ti vogliono parlare. Sapere chi sei, da dove vieni, qual è la tua storia.
Puoi stare nove anni a New York senza che nessuno ti parli, se per urlarti contro. Ma a Sarajevo, se incontri qualcuno che ti prende in simpatia, hai l’intera settimana pianificata!
E la prima cosa che ti direbbe, sarebbe: «Caffè?» Ne berresti uno ogni secondo.
Paradossalmente anche quando tutti giocano, davvero o per finta, alla guerra”.
Ora forza, riprendiamo il viaggio di BarBalcani! Ci rivediamo fra una settimana, per il terzo e ultimo episodio di questa tappa/trilogia…
Un abbraccio e buon cammino!
«Is there a time
for keeping your distance,
a time to turn your eyes away.
Is there a time
for keeping your head down,
for getting on with your day»- “Miss Sarajevo”
Passengers (U2 & Pavarotti) -
Ti ringrazio di cuore per essere arrivata o arrivato fino a questo punto. Spero davvero che tu stia apprezzando questa tappa e che per questo motivo abbia voglia di aiutarmi a far crescere questa esperienza collettiva.
Insieme possiamo davvero fare qualsiasi cosa!
Non devi fare l’impossibile, anzi. Ti basta solo invitare qualcuna delle persone più care (o più interessate) a iscriversi alla newsletter, cliccando su uno dei tasti qui sotto:
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