IV. Tornano i foreign fighters dell'Isis nei Balcani
Bosnia e Kosovo stanno cercando di reintegrare i combattenti radicalizzati di ritorno dalla Siria. Fallire è un pericolo per tutta l'Europa
Ciao,
passo dopo passo, settimana dopo settimana, siamo arrivati alla quarta tappa del cammino di BarBalcani, la newsletter che dà voce alle storie dai Balcani alla vigilia dei 30 anni dall’inizio delle guerre nell’ex-Jugoslavia.
La settimana scorsa abbiamo parlato di chi arriva nei Balcani dal Medioriente come migrante irregolare e delle torture che subisce alle porte dell’Unione Europea (se te la fossi persa, eccola qui).
Oggi continuiamo a vedere cosa succede a chi entra nei Balcani dal Medioriente. Stavolta però non a chi ci mette piede per la prima volta. Ma a chi ci fa ritorno.
È il momento di raccontare la storia della deradicalizzazione dei foreign fighters tornati dalla dissoluzione dello Stato Islamico.
«Mi pento di tutto»
Il suo nome è Munib. Munib Ahmetspahić. Ha 30 anni ed è nato nella città di Zenica, nel cuore della Bosnia ed Erzegovina. Nel 2013, quando di anni ne aveva 23, Munib fece una scelta radicale. Partì per la Siria, per arruolarsi tra le fila dell’Isis.
Nel novembre del 2018 Munib decise di tornare a casa. Lo Stato Islamico ormai si stava dissolvendo e rimanere in Siria sarebbe stato troppo rischioso.
All’aeroporto di Sarajevo lo aspettavano però le forze dell’ordine bosniache del reparto antiterrorismo. A suo carico c’era anche il sospetto di aver partecipato all’attacco terroristico contro l’ambasciata Usa a Sarajevo il 28 ottobre 2011.
Sei mesi dopo Munib venne condannato dal Tribunale della Bosnia. Quei 5 anni da combattente in Siria gli sono costati parecchio: un fratello - partito con lui e mai più ritornato - una gamba e infine 3 anni di reclusione per attività terroristica.
Qualcosa però cambia. Nel 2020 alcuni neuropsichiatri certificano che Munib si è «completamente deradicalizzato» e confermano la sincerità delle sue parole:
«Mi pento di tutto. Sono stato davvero ingenuo a prendere quel tipo di decisione. Consiglio ai giovani di non cadere nello stesso errore. Chiunque volesse combattere per una causa giusta, dovrebbe farlo con mezzi legali».
Munib Ahmetspahic è il primo foreign fighter balcanico deradicalizzato dopo il suo ritorno dai combattimenti per l’Isis.
Combattenti per la fede. In trasferta
Quella di Munib è una delle tante storie dei più di 1000 ragazzi e uomini partiti dai Balcani tra il 2013 e il 2014 per infoltire le schiere dello Stato Islamico. Questo almeno fino al “tradimento” del sogno del jihad. Fino al pentimento.
Nella penisola, Kosovo e Bosnia ed Erzegovina sono i due Paesi che hanno visto partire più miliziani indottrinati.
Dal Kosovo si stima che siano partiti circa in 400. In condizioni sociali che spesso rasentano la povertà assoluta e l’analfabetismo, il takfirismo (una forma estrema di fondamentalismo islamico salafita) e l’ideologia della guerra santa hanno una grande presa su chi non ha altre prospettive di vita.
Dalla Bosnia sarebbero invece partiti tra i 200 e i 300 miliziani. Nel 2015 nel piccolo paese di Osve (60 chilometri a nord di Zenica) sventolava addirittura la bandiera nera del Califfato. Qui si esercitavano i miliziani che sarebbero poi stati spediti sui campi di battaglia in Siria e Iraq.
Una vera e propria enclave jihadista in Europa.
Come per Munib, tutto però cambia con la dissoluzione dello Stato Islamico. Quelli che non sono morti sul campo o non sono stati catturati dai curdi e dai siriani, fanno ritorno a casa. E sono tutti uomini radicalizzati al jihadismo più violento.
Per gli Stati balcanici la domanda è solo una. Come gestirli?
Condannare non basta
«Non penso che il nostro lavoro sia ultimato una volta che si pronuncia la sentenza di condanna». Sono le parole di Anes Cengic, ex capo dell’antiterrorismo in Bosnia ed Erzegovina.
Come emerge dallo studio del Balkan Investigative Reporting Network, a oggi sono 137 le persone condannate nei Paesi balcanici per aver combattuto tra le fila dell’Isis.
Vanno poi aggiunti i condannati per terrorismo domestico e quelli tornati da altri fronti di guerra (come quello filo-russo in Ucraina per i serbi). Si arriva a circa 200 persone condannate a scontare più di 1100 anni di prigione.
Ma, appunto, il problema non è tanto condannarli. È come reintegrare nella società gli ex guerriglieri jihadisti e le loro famiglie. Mogli e bambini, con un passato recente traumatico.
Una sfida alle porte dell’Italia
La strategia che i Paesi balcanici stanno iniziando a mettere in pratica si fonda su tre parole d’ordine: supervisione, riabilitazione e assistenza.
Prima di tutto, le condanne non sono eccessivamente pesanti. Munib è stato condannato a 3 anni di carcere: in Bosnia la media è di 2 anni, in Kosovo di 3 e mezzo. Il rischio è che il carcere non rieduchi. O, peggio, che crei nuovi radicalizzati.
La filosofia è: meglio un anno di carcere in meno, che un jihadista in più.
Si preferisce quindi puntare su programmi di riabilitazione a contatto con le comunità locali e con la polizia. Non rendere gli uni corpi estranei rispetto agli altri.
E infine l’assistenza. Dare ai bambini un supporto psicologico, permettere loro di tornare a scuola, fornire alle famiglie una previdenza sociale simbolica, aiutare gli adulti a trovare un lavoro.
È vitale che lo Stato venga sentito finalmente vicino. Le istituzioni un aiuto contro la mancanza di prospettive.
La strategia di non puntare il dito per criminalizzare le famiglie degli ex combattenti dell’Isis sta muovendo ora i primi passi ed è sicuramente ambiziosa. Ma è anche l’unica che potrebbe risolvere una delle questioni più spinose del terrorismo post-Isis.
Tutta l’Europa ne è coinvolta. L’Italia in particolare: i Balcani sono ben più vicini della Libia.
Lo scenario di avere centinaia di potenziali jihadisti sull’altra sponda dell’Adriatico dovrebbe darci una grossa spinta a supportare lo sforzo di questi Paesi.
Deradicalizzare i foreign fighters tornati nei Balcani dalla Siria è una sfida che non possiamo permetterci di fallire.
Fine tappa. Sul bancone di BarBalcani
Siamo arrivati alla fine della quarta tappa. Per rispettare le usanze delle comunità musulmane della Bosnia ed Erzegovina e del Kosovo, oggi torneremo a degustare bevande analcoliche.
Cosa di meglio quindi della cultura del caffè ottomano, nelle sue varie declinazioni da Paese a Paese? Oggi scopriremo il “caffè bosniaco”.
Per prepararlo, si deposita nella caffettiera džezva la polvere di caffè. Poi si versa acqua bollente e si mette la caffettiera sul fuoco. Va mantenuta costante la temperatura per creare schiuma densa.
Il caffè viene servito con acqua e qualche zolletta di zucchero. La schiuma va trasferita con un cucchiaino nella tazzina senza manico fildžan. Poi si versa il caffè. Per il primo assaggio si inzuppa una zolletta nel caffè per poi succhiarla.
Il caffé nei Balcani va consumato con calma. Versarlo tutto troppo velocemente farebbe finire la polvere nella tazzina. Berla non è la migliore esperienza del mondo.
Riprende il viaggio di BarBalcani. Ci rivediamo fra una settimana, per la quinta tappa! Un abbraccio e buon cammino!
Io ne approfitto per ringraziarti di essere arrivato fin qui. Ti lascio alcune delle vecchie tappe, se te le fossi perse. Quella su Kosovo e calcio, quella sugli affari della Cina in Serbia e soprattutto quella sui migranti torturati dalla polizia croata, nel silenzio colpevole dell’Europa intera.
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