XXXVI. Solo la morte m'ha portato in collina
Omaggio al De André dei Balcani, venuto a mancare il 19 febbraio per le complicanze del Coronavirus. Aveva 67 anni. I versi di Faber accompagnano l'ultimo saluto a Đorđe Balašević
Ciao,
bentornata o bentornato a BarBalcani, la newsletter che dà voce alle storie dai Balcani occidentali nel 30° anniversario dalle guerre nell’ex-Jugoslavia.
Lo senti questo silenzio? La senti quella melodia che si è strozzata in gola?
Da una settimana si vedono in Europa i segni di una pace terrificante.
S’è fermato il cuore del padre del cantautorato jugoslavo. Stroncato da una polmonite, per le complicanze del Coronavirus.
Oggi omaggiamo Đorđe Balašević attraverso i versi di Fabrizio De André.
Perché solo la morte l’ha portato in collina.
Non sono riusciti a cambiarci
Se n’è andato venerdì 19 febbraio Đorđe Balašević. In una sera di metà inverno d’improvviso s’è spenta la lampadina della sua anima.
Il Faber dei Balcani ha lasciato tutti senza parole, da Zagabria a Belgrado, da Novi Sad a Sarajevo. Nella pietà che non cede al rancore per una sera tutte le ex-Repubbliche jugoslave si sono trovate accomunate da un comune dolore.
Aveva 67 anni il migliore ambasciatore balcanico, amato da tanti, inviso da troppi. Perché metteva l’amore sopra ogni cosa, la fratellanza come caposaldo di vita.
I suoi versi l’hanno legato per sempre a tutte le genti venute dall’Est. Genti che ora, vedendo quest’uomo che muore, ora provano dolore.
Per seguire il feretro del defunto ideale centinaia di persone si sono date appuntamento in tutte le piazze delle città dell’ex-Jugoslavia.
Un concerto collettivo improvvisato davanti alla cattedrale di Novi Sad. Una trasposizione nella realtà di un suo verso sulla Ilica, la via principale nel centro di Zagabria:
Che io possa passare ancora una volta per la Ilica e che scarabocchi “bećarac” in cirillico».
Bećarac - una forma di canzone popolare - in cirillico l’hanno scritto davvero a Zagabria i ragazzi d’un tempo, in un ridere rauco, ricordi tanti e nemmeno un rimpianto.
Nato nel 1953 a Novi Sad, il piccolo Đorđe non immagina che diventerà un poeta, un cantautore. Sogna un posto degno d’un bombarolo. Uno stadio pieno, per un vero calciatore.
Invece la vita doveva riservare altro. Dopo aver conquistato il diploma di maturità, si unisce al gruppo acustico Žetva. È il punto di svolta per la sua vita, il momento in cui manderà a dire a sua madre che non tornerà.
Volta la carta e c’è la band successiva, i Rani Mraz, con cui firma il primo grande successo. Računajte na nas (“Conta su di noi”), l’inno della gioventù che credeva nel sogno di Tito. Comunista per comunista, i ragazzi che sognavano di continuare la lotta rivoluzionaria per un mondo più giusto.
Quarant’anni di carriera, un lirismo irraggiungibile, tra malinconia mascherata e umorismo stridente, zirichiltaggia ha attinto ai dialetti di tutti i popoli balcanici. Fino a forgiare neologismi quando sognava talmente forte da uscirgli sangue dal naso.
Balašević cantava di nostalgia e dell’amore che strappa i capelli, di vino e di pace, della vita quotidiana delle persone. Sognatori e villani che zappano la terra, decadenti e idealisti, ragazze con le labbra color rugiada e donne che seminano il grano.
Esplorava tutti i mondi musicali, dal folk al blues, dal rock al valzer, fino alla sevdalinka (folk popolare). Accompagnato solo dalle corde d’oro di una chitarra o da un’intera orchestra, sapeva mescolare strumenti elettronici e tradizionali.
Dovunque andasse - Serbia, Croazia, Bosnia o Slovenia che fosse - i suoi concerti erano come avere un mondo nel cuore. Ore di canzoni e di stand-up, con battute sottili sui suoi concittadini, la sua famiglia, il suo lavoro o la politica.
Balašević divideva i cantanti in due categorie:
«Ci sono i ‘veri’, i bei ragazzi che ballano, si vestono bene ed eseguono vocalizzi. Poi ci sono quelli come me, che canticchiano e recitano poesie, senza badare alla calvizie e alla rotondità della propria pancia».
A chi gli diceva che le sue canzoni erano troppo sentimentali, rispondeva che «lo è anche la vita». Amore che vieni, amore che vai.
Il fumettista Midhat Kapetanović ha omaggiato la memoria di Balašević con un’illustrazione che mostra Zagi lo scoiattolo, mascotte di Zagabria (Universiade 1987), Vučko il lupo, mascotte di Sarajevo (Olimpiadi invernali 1984) e Mestrovic Pobednik (la Statua del Vincitore), simbolo di Belgrado, uniti nel dolore per la scomparsa del cantautore.
Vučko conforta un coniglio bianco, con due mandarini ai loro piedi, in ricordo della tradizione di lanciare sul palco mandarini e conigli bianchi di peluche quando Balašević cantava “Neki novi klinci” (“Dei nuovi bambini”).
In direzione ostinata e contraria
Erano gli anni di Tito, dell’ideale di una Jugoslavia non allineata.
Balašević era l’interprete della fratellanza jugoslava. Non il megafono di un regime nazionalista, come pensavano quelli così coglioni da non riuscire più a capire che le emozioni universali non si possono limitare dentro confini statali o etnici.
È stato la voce della generazione nata dopo la guerra, quella per cui i mille papaveri rossi della guerra di liberazione partigiana erano storie raccontate dai genitori.
La generazione che, grazie al relativo liberalismo titino, poteva spiare i ragazzi dell’Occidente per imitarli nella musica e nelle mode.
Tito era il faro, il sire vincitor, che poteva tenere insieme popoli così diversi. La morte del Maresciallo nel 1980 aprì una stagione di incertezza scivolosa e profonda.
Da Triput sam video Tita (“Ho visto Tito tre volte”) a Samo da rata ne bude (“Che solo non ci sia la guerra”), dedicò diverse canzoni al presidente jugoslavo defunto.
I tempi stavano cambiando. È del 1987 “Che solo non ci sia la guerra”, 4 anni prima dell’inizio degli scontri armati, quando nessuno osava immaginare il mancato finale del sogno jugoslavo. Non abbastanza splendido e vero - però - da poterli ingannare.
Qualcosa nell’aria già c’era dalla morte di Tito, nel 1980. Il «treno nero» su cui fu caricata la salma del Maresciallo era lo stesso che si portò via la Federazione intera.
Alla stazione c’erano tutti, con gli occhi rossi e il cappello in mano. Ma non le élite nazionaliste, che dalla Serbia alla Croazia banchettarono sul cadavere di utopia.
Il De André dei Balcani dal primo istante si scagliò contro la retorica nazionalista che avrebbe portato il Paese alla guerra civile.
Lui non era né serbo né croato né bosniaco né sloveno. Lui era figlio della Jugoslavia, cantautore di inni pacifisti, tragicamente inascoltati.
Rimase l’ultimo cittadino libero di questa famosa città civile.
Nella sua terra di nascita, Balašević si oppose a Slobodan Milošević e fu accusato dal presidente serbo di avere la divisa di un altro colore, perché non volle arruolarsi.
«La guerra è la croce della mia generazione. Non solo perché non abbiamo fatto niente per meritarcela, ma perché abbiamo permesso che ci fregassero, che rovinassero le generazioni future. L’immagine, che pure esisteva, di uno Stato piccolo, coraggioso, soprattutto onesto, si è così degradata che non so più come potremo aggiustarla».
La guerra fu inevitabilmente il tema che lo accompagnò negli anni Novanta. “Che solo non ci sia la guerra”, a 4 anni di distanza, fu cantata senza sosta dai giovani jugoslavi e li aiutò a ritagliarsi qualche ora di libertà.
Il vero capolavoro fu Čovek sa mesecom u očima (“L’uomo con la luna negli occhi”). Un canzone/poesia del 1993, dedicata a Vukovar e alla devastazione che la accomunava ad altre città bosniache e croate.
Sono le lacrime più piccole, le lacrime più grosse per il piccolo mondo perduto con la guerra. I lavori in campagna, il fiume a primavera, l’odore delle locande, cani e fumo e tende capovolte per le liti tra vicini, la melodia dei mandolini alle feste di nozze.
Tutto ciò che la gloria di una medaglia alla memoria si era ormai portata via.
«Voi non avete idea, miei cari fratelli,
non sapete cosa significa uccidere una città».
Nel 1999 criticò anche i bombardamenti della NATO, scrivendo Dok gori nebo nad Novim Sadom (“Mentre il cielo brucia su Novi Sad”), sulla distruzione del ponte sul Danubio nella sua città:
«Non diciamo menzogne,
questo non era un ponte di quelli fatti per essere guardati.
No, era piuttosto uno di quelli costruiti
per guardarci e per baciarcisi sotto la prima volta».
L’anno prima Balašević era stato invitato a Sarajevo per un concerto di riconciliazione. In molti, in Serbia, parlavano del rischio di ordigni costruiti su scala industriale contro di lui.
Durante il concerto, face una pausa e parlò al pubblico:
«Mi hanno chiesto se fossi spaventato nel venire a Sarajevo… Beh, se io avessi paura di qualcosa, sarebbe proprio qui a Sarajevo che mi verrei a nascondere. I sarajevesi sono stati nel mirino per cinque anni, io non posso non farlo per due giorni».
E aveva un solco lungo il viso, come una specie di sorriso.
Durante il regime di Milošević fu bandito dalla radiotelevisione nazionale.
Nel 2000 pubblicò Devedesete (“Anni Novanta”), una raccolta di ballate dai riferimenti allegorici al dittatore serbo e al disastro delle guerre. Dopo la caduta di Milošević, Živeti slobodno (“Vivere liberi”) divenne l’inno della bella che è addormentata. La libertà.
Anche dopo la fine del regime nazionalista ha continuato a esercitare la sua voce potente, la sua lingua allenata a battere il tamburo. Perché aveva ancora una voce potente, adatta per il vaffanculo.
Lo ha dimostrato durante il rigurgito nazionalista dell’attuale presidente Aleksandar Vučić, che gli ha ispirato la canzone Dno dna (“Il fondo del fondo“).
Puntualmente censurato dalla ginnastica d’obbedienza delle radio nazionali. Puntualmente attaccato dalla macchina del fango ben in vista nei chioschi di giornali.
Ma la sua indipendenza artistica, Balašević l’ha mantenuta fino alla fine. Perché Đorđe al loro posto non ci sapeva stare.
Se state a sentire sulla porta, si sente ancora la sua ultima canzone che ripete un’altra volta: “Contate su di noi”. L’inno generazionale che non ha più cantato pubblicamente.
Si vergognava troppo di coloro che tradirono le promesse della Jugoslavia.
“Contate su di noi”, perché potremo anche morire per delle idee, trovando nuove strade. Dalle nostre vene sgorga il sangue dei partigiani, saremo i custodi della pace.
E l’anima d’improvviso prende il volo.
È quella di Đorđe Balašević, il De André dei Balcani.
Fine tappa. Sul bancone di BarBalcani
Siamo arrivati alla fine di questo tratto del nostro viaggio. Un omaggio a Balašević, attraverso i versi di De André.
Lo ricordiamo anche qui, sul bancone di BarBalcani. Ricordiamo colui che offrì la faccia al vento, la gola al vino e mai un pensiero.
La vita gli riservò grandi slanci e dolorosi ritorni. Grandi speranze di fraternità tra popoli, senza mai poter bere alla coppa d’un fiato, ma a piccoli sorsi interrotti.
E alle cocenti delusioni portate dai nazionalismi, là dove non poteva più combattere, intonava disilluso:
«Dammi il vino, lascia che si versi il vino
finché durano i giorni,
ma soprattutto le notti.
Perché la tristezza è lì,
quella mia fedele amica.
E quando c’è tristezza,
allora dovremmo bere».
Se n’è andato il poeta dei Balcani.
Ma sembra di sentirlo ancora dire al mercante di liquore: “Tu che lo vendi cosa ti compri di migliore?”
Riprende il viaggio di BarBalcani. Ci rivediamo fra una settimana, per la trentasettesima tappa!
Un abbraccio e buon cammino!
«Il destino dei giorni futuri
dipende da noi
e forse questo a qualcuno fa paura.
Nelle nostre vene
scorre il sangue dei partigiani
e noi sappiamo perché siamo qui.
Contate su di noi».- “Računajte na nas”
Đorđe Balašević
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XIX. Miss (you) Sarajevo, ep. 2 (intervista esclusiva a Bill Carter sul capolavoro degli U2 e Pavarotti)
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