S2E12. FK Ultras Belgrado, ep. 1
Prima tappa nel cuore del tifo violento della capitale serba, spaccato tra gli ultras della Stella Rossa e del Partizan. Criminalità, ultranazionalismo e collusioni con il potere i fattori comuni
Ciao,
bentornata o bentornato a BarBalcani, la newsletter dai confini sfumati.
Ci eravamo lasciati la settimana scorsa con il Congresso dei neo-fascisti europei a Belgrado.
Non ti suonerà strano che l’ambiente dove più attecchiscono le idee estremiste, violente e razziste sono le curve degli stadi di calcio. La patria degli ultras.
Proprio la capitale serba presenta una delle situazioni più feroci del mondo, con due tifoserie che si contendono il titolo della curva più sovversiva.
Ma prima ci serve un po’ di contesto.
A questo proposito, vorrei condividere con te la bozza di un articolo realizzato per il blog Calcio o Barbarie. Ci può dare un quadro della situazione, prima di sviscerare - nella prossima tappa - le criticità del mondo ultras di Belgrado.
Buona lettura!
La deviazione della Curva
Razzi, cesoie e bandiere del Kosovo date alle fiamme. Sul campo del Marassi di Genova, una serata di ordinaria follia. Gli attori, i tifosi arrivati da Belgrado per incendiare la partita Italia-Serbia, sotto la regia di un uomo incappucciato. “Coi”, il suo nome di battaglia: la maschera di Ivan Bodganov, capo ultras della Stella Rossa.
Era il 12 ottobre 2010. È passato oltre un decennio, ma sarebbe segno di grande ingenuità pensare che lo stesso non potrebbe ripetersi anche oggi, in qualsiasi momento. Almeno se stiamo parlando del tifo più caldo d’Europa: quello balcanico. Per referenze, chiedere alla capitale serba.
Calcisticamente e socialmente, Belgrado non è una città come le altre. L’FK Partizan e l’FK Stella Rossa si sfidano ormai da 76 anni, in un clima che è sempre un misto di duello all’ultimo sangue e guerra civile. Per essere chiari, non sono immagini retoriche prestate al mondo del pallone. È la realtà di due curve dominate da esponenti della criminalità organizzata e da ex-paramilitari delle guerre che hanno insanguato la penisola balcanica. In molti ci rivedono l’atmosfera che si respirava nell’Inghilterra degli anni Ottanta, sotto l’assedio degli hooligans. Ma qui si tratta di un livello di aggressività più profondo, che affonda le radici in un passato tragico e si proietta in un futuro incerto.
Trent’anni fa si aprivano i conflitti che portarono al dissolvimento dell’ex-Jugoslavia. Slovenia, Croazia, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia. Attraverso un domino di vite e mitragliatrici, la Repubblica Socialista Federale del maresciallo Josip Broz Tito andò incontro a un processo di implosione durato un decennio. In scenari bellici dominati dall’odio etnico, gli ultras si ritagliarono un ruolo di primo piano come macellai di esseri umani. Se il tifo sportivo rappresenta una valvola di sfogo per la tensione sociale, i leader nazionalisti serbi furono abili a tapparla e trasferire la violenza delle curve sul campo di battaglia.
Il caso più evidente furono le Tigri di Arkan. I seguaci del capo ultras della Stella Rossa, Željko Ražnatović, furono inquadrati in squadroni paramilitari, con una disciplina feroce. Teste rasate e tute nere, gli uomini del comandante Arkan rastrellarono le minoranze non-serbe della Croazia e della Bosnia (altri si occuparono del Kosovo) in uno stillicidio di episodi di pulizia etnica. Centinaia di civili assassinati sulla coscienza, con un modus operandi che sfondava il confine dell’atrocità: ognuna delle Tigri aveva in dotazione un cucchiaino dai bordi affilati, per cavare gli occhi alle vittime prima di ammazzarle.
Questi erano i soggetti che negli anni Duemila, al termine dei conflitti, tornarono a popolare la Nord del Marakana. Questi erano i soggetti che ispirarono i nuovi ultras serbi, troppo giovani ai tempi del mattatoio balcanico: il leader degli Ultra Boys, Ivan Bodganov, su tutti. Criminali di guerra uniti a criminali di strada, dalla Belgrado biancorossa alla Belgrado bianconera.
Sono passati poco meno di nove mesi dal tentativo di smantellamento di un’associazione verticistica con profonde radici nel traffico di droga e armi, nel riciclaggio e nei sequestri di persona. Un’organizzazione dominata dai Giannizzeri del Partizan Belgrado e dal suo leader, Veljko Belivuk, accusato di aver ordinato l’eliminazione fisica di almeno tre rivali nel mercato della cocaina. In un intreccio di guerre tra clan che collega la capitale serba con Kotor (feudo montenegrino della mafia balcanica), i Giannizzeri avrebbero sfruttato il proprio potere sulla Sud del Partizan Stadium e sulle strade di Belgrado per scendere a patti con le autorità: un occhio chiuso, in cambio della pace sociale. Riuscendoci.
Secondo quanto emerge dall’inchiesta del procuratore Saša Ivanić– un’istituzione nel mondo dell’antimafia serba – le collusioni dell’organizzazione di Belivuk con gli ambienti delle forze dell’ordine e della politica andrebbero oltre ogni aspettativa. Confermando il potere che può esercitare sulla Serbia un gruppo ultras che conquista il controllo del tifo organizzato di una delle due squadre di Belgrado.
Il primo tassello è Nenad Vučković, consigliere speciale della Gendarmerie, le unità speciali di polizia: avrebbe fornito supporto logistico e armi ai Giannizzeri prima e dopo la morte del loro leader storico, Aleksandar Stanković, nell’autunno 2016. E qui si sale di livello. Grazie a Vučković – e a una relazione non esattamente professionale – sarebbe stata coinvolta nel giro anche l’ex-segretaria di Stato presso il ministero degli Interni, Dijana Hrkalović. Sarà un caso, ma durante il suo mandato (interrotto nel maggio 2019 senza nessuna spiegazione) la “guerra alla mafia” dichiarata dallo Stato serbo dopo l’assassinio di Stanković ha colpito quasi solo le diramazioni del clan montenegrino Škaljari. Per capirci, i rivali del clan compaesano Kavač, affiliato proprio ai Giannizzeri.
Fino ad arrivare al grado massimo. Il presidente della Repubblica, Aleksandar Vučić, prima o poi rischia di dover dare delle risposte politiche all’irrequietezza del figlio. Danilo ha amicizie consolidate nella tifoseria del Partizan, soprattutto con i Giannizzeri più noti: Milan Krasić, Aleksandar Vidojević e Boris Karapandžić, nome di spicco tra gli arrestati nella retata dello scorso 4 febbraio. Insieme a loro, il figlio ventunenne del presidente era stato fotografato mentre esultava con le tre dita “alla serba” (simbolo ultranazionalista) e con magliette inneggianti al “non si fanno prigionieri” in Kosovo. Il palcoscenico era quello di Serbia-Costa Rica, durante i Mondiali di Russia nel 2018. Un altro pomeriggio di ordinaria follia per il tifo balcanico. Un’altra deviazione della Curva.
Fine tappa. Sul bancone di BarBalcani
Siamo arrivati alla fine di questo tratto del nostro viaggio.
Con la scusa del calcio, in queste due tappe ci ritroveremo a scoprire i banconi dei bar che portano i nomi delle due squadre di calcio di Belgrado.
Seguendo il filo rosso degli hooligans, ci ritroviamo nel Regno Unito. Più precisamente a Formby, una cittadina a pochi chilometri da Liverpool.
Qui troviamo un birrificio singolare, la Red Star Brewery. La Stella Rossa.
Fondato nel 2015, questo birrificio artigianale produce una gamma di prodotti utilizzando i migliori malti inglesi e una selezione di luppoli da tutto il mondo.
Il birrificio ha vinto una medaglia d’oro al SIBA Independent Beer Awards e le esportazioni, guarda caso, hanno avuto come principale destinazione la Serbia.
Altro fatto curioso, sul bancone della Red Star Brewery si trova una birra scura al retrogusto di caramello, con un nome familiare: Partizan.
Proprio come i rivali storici della Nord del Marakana.
Riprende il viaggio di BarBalcani. Ci rivediamo fra una settimana, per la tredicesima tappa e l’analisi delle due curve di Belgrado.
Un abbraccio e buon cammino!
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Io come sempre ti ringrazio per essere arrivato fino a questo punto del nostro viaggio. Qui puoi trovare tutte le tappe passate.
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