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The Yugoslav Wars // Le guerre in Jugoslavia
Febbraio '91. Una guerra senza inizio
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Febbraio '91. Una guerra senza inizio

Febbraio 1991.

La Slovenia continua a preparare la sua strategia di indipendenza dalla Jugoslavia [puoi recuperare qui il primo episodio di BarBalcani - Podcast].

Intanto, su un altro fronte, si stanno mettendo in moto tutti i presupposti per lo scoppio della prima vera guerra civile nella regione.

Siamo in Croazia.

In un’escalation di tensione e violenza, sfumano i confini dell’inizio della guerra nell’ormai ex-Jugoslavia.

Perché la guerra dei 10 anni non è altro che una guerra senza inizio.


Terre di minoranze

Mentre nelle capitali dei futuri Stati nazionali si sta consumando la morte della Jugoslavia, nel piccolo centro di Knin (nell’entroterra tra Zara e Spalato), si sta preparando l’ingrediente dei successivi 10 anni di guerra.

L’odio etnico. La violenza tra nuove e vecchie minoranze.

A Knin sta per nascere l’autoproclamata Repubblica serba di Krajina (SAO Krajina), l’entità politica dalla popolazione di etnia serba.

Annusando l’aria della dissoluzione della Federazione, l’obiettivo primario dei serbi nella Krajina diventa quello di eliminare ogni velleità di controllo della regione da parte delle future autorità croate.

Territorio rivendicato dai serbi di Croazia

Nella Repubblica Socialista di Croazia i serbi rappresentano l’11,6% su una popolazione di circa 600 mila persone. Si concentrano nella regione orientale della Slavonia, nell’entroterra dalmata di Knin e nella Banija a sud di Zagabria.

Il punto è che nella Jugoslavia di Tito i serbi di Croazia si considerano un frammento della nazione serba, parte integrante della maggioranza.

Nella prospettiva dell’indipendenza di Zagabria, invece, emerge un nuovo problema: i serbi si trasformerebbero in minoranza di un Paese che si sta definendo “Stato nazionale dei croati”.

Ma, secondo il diktat del presidente serbo Slobodan Milošević, «dove c’è una tomba serba, là è Serbia». E così la Croazia diventa terra di divisioni etniche.

Tra fine gennaio e inizio febbraio 1991, la SAO Krajina istituisce a Knin la “Segreteria regionale per gli affari interni”, nominando al suo vertice Milan Martić.

È proprio Martić, già nel 1990, a definire i confini della Krajina:

«Si tratta di una regione piuttosto vasta. Essa comprende sei comuni che controlliamo noi - e cioè Knin, Obrovac, Benkovac, Gračac, Donji Lapac e Titova Korenica. Siamo però in fase di annessione di altri sei: cinque dell’area di Kordun e Banija, più Pakrac della Slavonia».

Insieme con Serbia, Montenegro, Bosnia e Slavonia, questo territorio costituirebbe uno Stato di tutto rispetto nel cuore dei Balcani.

Ma va sfatata la prima delle tante leggende metropolitane prodotte dalla disinformazione nell’ex-Jugoslavia.

La Krajina, come entità politica e geografica, non è mai esistita.

Krajina significa marca: era la fascia di territorio-cuscinetto tra l’Impero austro-ungarico e l’Impero ottomano, abitata da popolazioni serbe incaricate da Vienna di difendere l’avanzata degli “infedeli” verso nord.

Così si spiega la consistente presenza serba nella regione.

Ma la composizione etnica, a pochi mesi dalla dissoluzione della Jugoslavia, è già base conflittuale.

Milan Martić

Il piano di secessione

Il 28 febbraio viene proclamata la costituzione della Provincia autonoma serba della Krajina.

Intanto a Belgrado c’è già un piano per la Croazia: nome in codice, Piano Ram.

Ram come cornice: definisce le frontiere occidentali della Grande Serbia e la creazione di una cornice per la nuova Jugoslavia. Qui i serbi, con i loro territori, vivranno tutti in uno Stato.

Il piano del generale Veljko Kadijević si articola in due fasi.

La prima. Una serie di sommosse popolari e incidenti pilotati provocano la reazione della polizia croata. L’Armata Popolare Jugoslava ha così la scusa per intervenire a difesa dell’«inerme popolo serbo».

La seconda. La Croazia è isolata, paralizzata e divisa in 4 settori. Le «aree serbe» vengono occupate militarmente, stabilendo la nuova frontiera lungo la linea che dalla Slavonia occidentale corre a sud verso la Krajina.

Con la nuova frontiera, il 62% del territorio della Repubblica Socialista di Croazia finirebbe in mano ai serbi.

C’è un piccolo dettaglio. Complessivamente, su queste terre 4 abitanti su 5 sono croati, ungheresi o di altri gruppi estranei all’etnia serba.

Ma per Belgrado questo “inconveniente” è irrilevante.

Il generale Veljko Kadijević

Così, a partire da fine febbraio, dalla Krajina alla Slavonia lo schema si ripete sempre uguale a sé stesso.

Dove i serbi sono la maggioranza o una consistente minoranza, i poliziotti e i funzionari croati vengono espulsi dai ranghi.

Mine e bombe fanno saltare negozi e case croate.

Se scatta la controffensiva, arrivano i tank federali. In teoria dovrebbero separare i contendenti, ma nella pratica permettono alle milizie serbe di mantenere le posizioni.

I posti di blocco delle Province autonome serbe sono dei tronchi, dei bidoni di benzina, una bandiera jugoslava accanto alla croce cetnica con le 4 esse cirilliche (C). Stanno per Samo sloga Srbina spasava, cioè “solo l’unità salverà i Serbi”.

La prima pietra viene scagliata nella Slavonia occidentale. Più precisamente a Pakrac.

È l’ultimo giorno di febbraio, quando un gruppo di ribelli armati circonda il municipio e la stazione di polizia.

Vengono catturati funzionari e poliziotti fedeli a Zagabria e il gruppo armato dichiara che da quel momento in poi il paese risponderà solo all’amministrazione della SAO Krajina.

Zagabria invia i rinforzi per il contrattacco.

Arrivano a Pakrac 200 uomini, divisi in piccoli commando, che espugnano presto i due edifici e arrestano 180 insorti.

Non c’è nessuna vittima, né tra i croati né tra i serbo-croati. Ma l’esercito federale interviene comunque per «dividere i contendenti e prevenire nuovi scontri».

Ancora peggio, la stampa a Belgrado riporta l’azione di Zagabria come un atto di guerra in piena regola.

Radio Belgrado racconta dell’uccisione di 6 serbi. Il quotidiano Večernje novosti dà il meglio quando deve specificare chi sono le (11) vittime.

Un pope viene “fatto morire” a pagina 1, poi è solo ferito a pagina 2, ma - quasi miracolosamente - si fa intervistare a pagina 3.

È solo febbraio, ma la guerra ideologica e propagandistica è già iniziata.

Pakrac, Croazia

L’alba dei “macellai”

Prima ancora che si inizi a combattere davvero, l’Armata Popolare Jugoslava inizia già a schierarsi sui campi delle future battaglie.

I disertori croati confluiscono verso il nuovo esercito di Zagabria (che in aprile diventerà ufficialmente la Guardia nazionale croata).

La maggior parte dell’esercito federale inizia però a subire un processo di trasformazione. Da armata socialista a esercito nazionale serbo.

Con istruttori e armi di Belgrado, nei territori di Croazia e Bosnia abitati dalle minoranze serbe nascono le milizie cetniche. Sono le formazioni paramilitari serbe che saranno incaricate di fare il lavoro sporco.

La loro specialità: bonifica etnica e azioni terroristiche, con una buona dose di sadismo.

Sta per iniziare il tempo dei “macellai”.

I “macellai” durante i 10 anni di guerra civile sono innumerevoli. Ma il più spietato di tutti muove i passi proprio qui, tra la Slavonia e la Krajina. È Željko Ražnatović, alias Comandante Arkan.

Lui e i suoi uomini - la Guardia Volontaria Serba, o meglio, le Tigri di Arkan - diventeranno la soluzione per ogni “problema” etnico di cui Belgrado deve sbarazzarsi.

Željko ‘Arkan’ Ražnatović

Mentre le truppe paramilitari del brutale comandante della milizia di Knin, Milan Martić, indossano uniformi della Seconda guerra mondiale decorate con simboli religiosi medievali, gli uomini di Arkan sono inquadrati con più disciplina.

Teste rasate, tute nere, pulizia frequente. Il migliaio di criminali sotto il suo comando è tutto l’opposto dei tradizionali combattenti cetnici con le barbe lunghe.

Anche il “pittoresco” deve essere funzionale. Ognuna delle Tigri ha in dotazione un cucchiaino dai bordi affilati. Serve per cavare gli occhi alle vittime prima di ammazzarle.

D’accordo con i generali dell’esercito federale, Ražnatović fa il lavoro sporco prima in Croazia e poi in Bosnia. Ritiene di combattere una guerra vera:

«Non siamo milizie paramilitari, siamo sempre stati al fianco dell’Armata».

I suoi uomini sono reclutati tra gli ultras della Stella Rossa di Belgrado, di cui è il capo dal 1986, e nelle carceri della capitale serba.

Li ritroveremo in diversi episodi di pulizia etnica, con centinaia di morti tra i civili non-serbi sulla coscienza.

Ma le Tigri saranno benedette anche dalla Chiesa ortodossa serba. Proprio nessuno resiste alla tentazione di ritagliarsi un ruolo da protagonista nella guerra senza inizio.

Graffito realizzato dalle Tigri di Arkan

Volevo ringraziarti per aver contribuito a questo prodotto. Con il tuo aiuto è stato possibile finanziare il primo mezzo tecnico di questa newsletter/podcast: un microfono di registrazione a condensatore, che ha migliorato la qualità del suono.


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