Confessioni su un viaggio a Sarajevo
Una riflessione sul senso del viaggio, della scrittura, della conoscenza, della scoperta
Il Marko Polo è un traghetto bianco solo nelle intenzioni, con una lunga linea blu che lo cinge appena sotto il ponte passeggiata. In un tardo pomeriggio di luglio è ormeggiato al Molo 7 di Ancona, dove ingurgita una lunga fila di macchine che osservo dall’alto con malcelata impazienza. Voglio sentire la salsedine sulle labbra e i vestiti inumidirsi, il mare, e dopo il mare incontrare altra terra. Sbarcheremo a Spalato all’alba; da lì Sarajevo dista solo una tirata in macchina. Non ricordo com’è spuntata fuori, Sarajevo, lontana com’è dal tepore della costa. Ricordo però che ho accettato volentieri. Perché? Ci rifletto, mentre butto lo zaino su uno dei sedili inzaccherati del pontile di poppa. Perché è una meta ancora classificabile come alternativa, e l’idea di visitare lande remote, ignorate o schifate da quelli che compiaciuto definisco turisti d’alta stagione, rientra alla perfezione nel mio personaggio. Però c’è un fatto che conta, sotto questo strato appiccicoso di odio di sé. Di Sarajevo non conosco quasi nulla; dunque è remota per me, e non solo nell’immaginario collettivo.
Di Sarajevo non conosco quasi nulla. Lo scrivo e mi costa fatica, me ne vergogno. Il cervello inizia a buttare giù una lista, come ogni volta che prova a agire nel mondo senza deragliare.
Capitale della Bosnia-Erzegovina. Fin qui, ragionevolmente sicuri.
Città di turchi e slavi. E anche di austriaci, ora che ci penso. A Sarajevo, in quella che immagino come un’assolata giornata di fine giugno, Gavrilo Princip ha assassinato l’erede all’imperial trono degli Asburgo. La miccia della Prima Guerra Mondiale. Sono ragionevolmente sicuro anche di questo fatto: lo recitavamo a scuola come una litania. (Cosa ci fosse dietro quel gesto, invece, non lo ricordo granché: i bosniaci, fino a quelle pagine di manuale, erano stati relegati nelle pieghe della storia).
Assediata dall’esercito serbo durante la guerra Jugoslava. Per quanto tempo? Sicuramente molti mesi, forse qualche anno. Percepisco attorno all’evento un abbozzo di mitologia (non mi azzardo a dire propaganda, non ne so abbastanza): la resistenza eroica dei cittadini, l’Occidente che arriva in soccorso con aiuti umanitari, la grande biblioteca in fiamme che si fa simbolo della barbarie del nemico. Le lacune non riguardano solo l’assedio di Sarajevo, ma tutta la guerra Jugoslava. Avvenne nei primi anni ‘90, la Bosnia ne fu dilaniata e i serbi erano i cattivi. Poco altro. Nello zaino ho un libro di Rumiz sul tema, per provare ad espiare la colpa.
Una madre colora un quaderno con la figlia, dei ragazzi usano il dorso di uno zaino per intavolare una partita a carte, la balaustra che affaccia verso il porto si fa gremita di gomiti. Forse non conoscere Sarajevo non è un male, penso mentre il loro vociare si addensa attorno a me. Posso arrivarci con le spalle scariche di aspettative, esserne sorpreso. E posso provare a scrollarmi di dosso la paura, un po’ ridicola, di scrivere dei luoghi che ho visto. Naturalmente vivo, sto nel mondo e in esso mi muovo, e gli input che mi sbattono addosso riverberano nelle storie che provo a mettere assieme. Ma non ho mai scritto delle pieghe delle mani, degli odori acidi, dell’intensità della pioggia che identificano il genius di un luogo. Ho paura di non riuscire a farlo senza immergerlo anch’io nel mare di aspettative e stereotipi che lo precedono. Di non riuscire a tirarne fuori qualcosa di vero, o di nuovo: mi pare un’impresa sempre più ardua – nonché irrilevante – oggi che ogni anfratto è stato esplorato, documentato e fotografato, e mentre cresce ogni anno l’accozzaglia di non-luoghi da consumare. Per questo vorrei scrivere di Sarajevo senza il mio sguardo – o meglio, senza tutto ciò che il mio sguardo porta con sé. Mi sembra sia l’unico modo per provare a dire qualcosa che ne valga la pena.
Forse saperne poco può aiutarmi a scrivere di Sarajevo, annoto sul taccuino mentre il cielo avvampa dietro i campanili di Ancona. Un attimo dopo cancello la frase con uno scarabocchio nero. Non ci riuscirò, naturalmente, perché di aspettative e pregiudizi sono già sovraccarico. So che Sarajevo è una città balcanica, quindi povera – o comunque, più povera delle città in cui vivo. Ho svuotato il portafogli delle carte non necessarie, e i contanti li ho distribuiti (nascosti?) in tre zone diverse dello zaino. So anche che cercherò sui muri fori di proiettili. Forse quei segni non hanno fatto in tempo a toglierli, forse non avevano i soldi, o forse hanno deciso di tenerli lì per farli fotografare ai turisti e alimentare un proprio mito di rifondazione. So che ci sarà qualche viuzza messa a posto, strabordante di negozietti di souvenir e di quei ristoranti che in strada esibiscono menù in inglese con annesse gigantografie di piatti ‘tipici’. So che Sarajevo mi ricorderà Skopje, dove sono stato da poco, nei suoi palazzi e negozi e pietanze – cevapcici e altra carne speziata, cetrioli, pomodori e la burrosissima sfoglia del burek (nomen omen). So che sarà più graziosa, quindi più turistica. So, so, so… Non ho visto nulla, ma un’immagine di Sarajevo è già dentro di me. Ogni cervello ha i propri strumenti conoscitivi con cui elabora la realtà che si percepisce attorno. Osservare senza filtri interpretativi è impossibile: a Sarajevo vedrò ciò che già conosco di Sarajevo.
Il frastuono dei motori non si sente più, devono aver riempito la stiva: non manca molto alla partenza. Soffia un vento caldo. Sospiro di frustrazione: bisognerebbe eliminare lo sguardo. Vorrei arrivare a Sarajevo, penso, e assorbire ogni cosa: la forma delle foglie nei viali alberati, e quella delle buche dei marciapiedi; il cigolio di ogni carretto e il rumore di ogni macchina scassata, lo scroscio che fa il fiume in ogni suo punto; e le insegne dei negozi, la fretta dei clienti, le rughe sulla fronte di ogni passante… Ma dove finisce l’elenco? E cosa aggiunge? Descrivere il flusso ininterrotto delle cose che mi passeranno davanti equivale a descrivere niente, è affondare nel mare dell’oggettività di Calvino. Qualcosa mi scalda all’altezza dell’esofago mentre i portelloni si chiudono in un clangore metallico. Se l’alternativa (pure irrealizzabile) è descrivere tutto senza aggiungere nulla, forse non ha senso che mi accanisca contro il mio povero sguardo sghembo per contenerlo, comprimerlo, ridurlo al minimo (sapendo peraltro che non riuscirò eliminarlo del tutto). Se queste lenti opache devo tenermele, forse l’unica possibilità che ho per riuscire a dire qualcosa è diventarne cosciente; diventare cosciente di aspettative, pregiudizi e vergogne, e farci la tara per provare a evitarle. Abituare lo sguardo a identificarle, e ogni volta trascinarlo, di forza, da un’altra parte, dove è più scomodo, dove non si conosce. E solo a quel punto vedere che direzione prende, nell’oscurità, quanto lontano si spinge; se in quell’oscurità riesce, con un fremito d’eccitazione o di turbamento, ad afferrare dei contorni nuovi. Non so se possa bastare. Ma s’è fatto tardi, e il fumo scuro della Marko Polo sbuffa ormai copioso nel crepuscolo di Ancona. Tutto sul pontile trema, e siamo già staccati dalla banchina.
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