S4E1. Anilda Ibrahimi. I limiti da valicare
BarBalcani si rimette in cammino con la quarta stagione della newsletter e un'intervista alla scrittrice albanese fortemente radicata in Italia, autrice di romanzi che ne coniugano le due anime
Ciao,
bentornata o bentornato a BarBalcani, la newsletter (e sito) dai confini sfumati.
Come ogni anno, quando l’estate è ormai finita, anche per noi è arrivato il momento di rimetterci in cammino. Prima di ricominciare la nuova stagione, ruberò alla nostra ospite di oggi solo pochi secondi.
Il quarto anno di BarBalcani si apre con la promessa di aprire questa newsletter a contributi esterni originali su tutto ciò che ruota attorno alla regione balcanica. Politica, cultura, società, sport, arte, cinema, cucina, spiritualità…
È per questo motivo che da oggi la newsletter BarBalcani ospiterà una volta al mese articoli, reportage e interviste di collaboratori esterni. Arriveranno in posta l’ultimo venerdì del mese, in una sola versione (prevalentemente in inglese).
Saranno contribuiti retribuiti in modo trasparente - è sempre triste doverlo puntualizzare, ma la situazione editoriale generale è piuttosto desolante - e rispetteranno alcune linee-guida stilate dalla redazione BarBalcani.
Per proporre contributi o saperne semplicemente di più, puoi scrivere a redazione@barbalcani.eu
Ti ringrazio per la fiducia. Ci vediamo l’ultimo venerdì di settembre con il primo contributo di BarBalcani - Open bar.
E ora è arrivato il momento di riprendere il cammino.
Lo facciamo con Anilda Ibrahimi, scrittrice albanese fortemente radicata in Italia, autrice di romanzi in lingua italiana incentrati sulla storia, la cultura e la società dell’Albania nel corso dell’ultimo secolo.
E - forse - non meno importante, vincitrice della prima edizione di Balkan Playoff, il contest estivo semiserio di BarBalcani andato in scena su Instagram.
Anticipare i tempi
Nata a Valona, Ibrahimi si è laureata in lettere moderne all’Università di Tirana. Nel 1994 si è trasferita in Svizzera e poi nel 1997 a Roma, dove fino al 2003 ha rivestito il ruolo di consulente per il Consiglio Italiano per i Rifugiati.
Giornalista e scrittrice, nel 2008 è stato pubblicato da Einaudi il suo romanzo d’esordio Rosso come una sposa, scritto in lingua italiana e incentrato sulle vicende delle donne di una famiglia attraverso i cambiamenti sociali della storia albanese. Dal mondo arcaico di inizio Novecento al regime comunista di Enver Hoxha, fino alla società post-comunista.
Nel 2009 ha pubblicato L’amore e gli stracci del tempo, di cui sono stati opzionati i diritti cinematografici, nel 2012 Non c’è dolcezza e nel 2017 Il tuo nome è una promessa, con cui ha vinto il premio Rapallo. Nel 2022 è uscito l’ultimo romanzo, Volevo essere Madame Bovary.
Tutti i romanzi di Ibrahimi sono tradotti in sei lingue e mettono in luce la forza delle donne albanesi, sullo sfondo delle vicende storiche dell’Albania e dei Balcani.
Iniziamo dalle basi. Quali sono le tue fonti di ispirazione nella fase di ideazione di un nuovo romanzo?
«Non sono una di quegli scrittori che all’improvviso hanno un’epifania e così arriva loro l’ispirazione. Penso a lungo alla storia che voglio raccontare, anzi forse è la fase che dura di più. Proprio in questi giorni stavo pensando che con le storie che ho raccontato fino a ora ho sempre anticipato i tempi.
Nel primo romanzo Rosso come una sposa ho raccontato una storia generazionale di matriarcato dove le donne non erano descritte come vittime. Certo, avevano la sofferenza e il peso della vita sulle spalle, ma anche una resilienza e soprattutto una forza unica. Le accomunava una forte solidarietà femminile - parola abusata ai nostri tempi - ma lì era vera, segno anche di una vera società maschilista. Loro avevano capito che l’unico modo per far fronte al patriarcato era unirsi tra di loro.
In L’amore e gli stracci del tempo ho raccontato lo stupro etnico, la violenza sessuale contro le donne per colpire l’onore degli uomini, “riempire le loro pance”, incidendo così sulla composizione etnica del territorio. La donna era solo un semplice contenitore del seme dell’uomo e tutto questo faceva parte di un piano messo in atto dagli uomini.
In Non c’è dolcezza ho raccontato la maternità in tutte le sue forme. Una donna decide di mettere un figlio al mondo per la sua amica che non può averne, l’equivalente dell’utero in affitto dei nostri giorni.
In Il tuo nome è una promessa parlo di accoglienza: una famiglia ebrea accolta in Albania durante l’Olocausto e salvata insieme a quasi tremila profughi.
Per arrivare all’ultimo, Volevo essere Madame Bovary, su come incide l’assenza di un’educazione sentimentale nelle vite delle donne.
Sicuramente la storia personale ha un ruolo, ma non è tutto. Sono più per le storie collettive, laddove ci sono argomenti che ci interessano come comunità».
Piccole storie nella grande Storia
In che modo raccontare le storie di persone comuni può essere utile a raccontare un contesto storico più ampio, di cui magari è stato scritto poco?
«Quando scrivo un romanzo, la cosa che mi interessa di più sono le piccole storie, persone normali che vivono la loro vita finché non succede qualcosa che travolge il loro destino. I miei personaggi si trovano così in mezzo alla grande Storia senza averlo scelto.
Zlatan e Ajkuna in L’amore e gli stralci del tempo sono due di loro. Come anche Abigail in Il tuo nome è una promessa: lo stesso Paese che l’ha salvata dall’Olocausto la tiene prigioniera per quasi 40 anni.
Non ci sono eroi straordinari nelle mie storie, né vincitori o vinti, solo stralci di vita descritti spesso con dolcezza. Le mie storie non hanno la presunzione di stabilire la verità, io sono una scrittrice. Lo scrittore non stabilisce i torti della Storia, ma racconta ciò che è accaduto in quel periodo. E io la narro con la mia voce.
Non racconto di vittime, ma di persone che si sono trovate in mezzo alla Storia e come ha cambiato il loro destino. Ho sempre una costante, la pietas anche verso il male.
Ci sono però argomenti ricorrenti in tutti i miei romanzi: la grande Storia, la questione identitaria e anche quella dell’emancipazione femminile».
A questo proposito, le protagoniste dei tuoi romanzi sono tutte donne. È una scelta solo biografica, o è frutto di una riflessione socio-politica in senso femminista?
«Ho avuto tempo e modo in questi anni per elaborare la questione dell’emancipazione femminile. Ci ho messo anni, avevo bisogno di questo distacco per capire, per ricostruire cosa fosse realmente accaduto.
L’Albania era un Paese con una forte impronta islamica e dopo 500 anni di Impero Ottomano era arrivato il comunismo. In Rosso come una sposa parlo dell’emancipazione in quell’epoca raccontando di come le donne erano diventate libere grazie al comunismo, e questo era vero.
Nell’epoca ottomana la donna valeva metà di un uomo, come riporta testualmente il Corano. Nei testi sacri del comunismo c’era scritto che uomini e donne erano perfettamente uguali. Come si potevano conciliare le due cose? Semplice, si fanno diventare le donne come gli uomini e tutto è risolto.
In verità non si era risolto nulla, per l’ennesima volta avevano deciso gli uomini che la donna doveva diventare qualcos’altro. Lo slogan diceva “la donna forza della rivoluzione, uguale all’uomo” e non viceversa. Gli uomini non dovevano fare niente, erano ancora le donne che dovevano adeguarsi al loro modello per diventare l’Uomo Nuovo.
Tanto è che con la caduta del regime le cose sono cambiate di nuovo. Non seguo tanto la situazione attuale in Albania, manco da quasi 30 anni, ma sporadicamente da lontano noto un cambiamento non positivo. E non parliamo della vita patinata di Tirana e dei nuovi ricchi, ma delle popolazioni rurali.
E in ogni caso, in entrambi i contesti, sono ancora le donne a subire i cambiamenti e diventare qualcosa che nemmeno ora hanno deciso. Il mondo nuovo si abbatte su di esse rendendole ancora altro».
A quale personaggio dei tuoi romanzi sei più affezionata?
«Sono affezionata a quasi tutti i miei personaggi. Anzi, faccio prima a dire quale trovo repellente.
È il personaggio di Enver in Il tuo nome è una promessa. Volevo raccontare che le dittature o le circostanze possono solo peggiorare le persone, ma non trasformarle. Perché ci sono personaggi che rimangono integri a costo della morte, come Zlatan in L’amore e gli stracci del tempo».
Tutte le opere sono state pubblicate in italiano. A cosa è dovuta questa scelta?
«Io scrivo solo in italiano e, nonostante tutto, non partirei dalla lingua ma dalla parola ‘linguaggio’. Prendo in prestito le parole di Herta Muller: “La patria è il linguaggio e vi è solamente là dove è possibile una comunicazione libera tra eguali”.
La mia narrativa in madre lingua sarebbe stata una cosa totalmente diversa. E non per il fattore linguistico, ma per il linguaggio che mi ha donato l’italiano.
Durante una dittatura avviene una cosa fondamentale: l’impoverimento e la deformazione della lingua. Niente è naturale, le parole precipitano e diventano razionate, ostili alla vita a causa delle perversioni delle dittature.
Sono nata e cresciuta in piena dittatura e, se avessi iniziato a scrivere in quella lingua, il mio linguaggio sarebbe stato quello che mi era stato imposto. Avrei nominato e descritto il mondo tramite ciò che conoscevo sin da bambina.
Non avrei avuto una seconda possibilità, perché e impossibile imparare un nuovo linguaggio nella lingua nella quale sei nata».
Oltre i confini
Dopo essere nata, cresciuta ed esserti laureata in Albania, da 26 anni hai deciso di stabilirti in Italia. Qual è il tuo rapporto oggi con i due Paesi?
«Ho un rapporto risolto con entrambi i miei Paesi. Da una parte c’è il potere di appartenere a due luoghi diversi allo stesso tempo, ma anche il pericolo di non riuscire a cogliere ciò che accade intorno a te.
Non vivo aggrappata al passato, ho lavorato tanto sul rapporto migrazione/mobilità, sulla memoria e sulla narrazione. Posso citare un’artista, Chris Marker, che nel documentario Sans Soleil dice: “Non ricordiamo, riscriviamo la memoria”.
L’Albania è un Paese effervescente, dinamico, che è passato dall’epoca pre-moderna a quella post-moderna, saltando la modernità. E questo si sente fortemente.
Il Paese e il suo sviluppo architettonico sono il paradigma del cambiamento. La sua identità anche in passato era compromessa, vi sono i passaggi della storia, tutte le dominazioni che ci sono state. Ma almeno c’era un lato positivo: quei passaggi avevano il pregio di raccontare la sua storia nei secoli.
Invece ora la globalizzazione spazza via tutto e rende tutti uguali in nome di un’uguaglianza che non esiste, peraltro. L’uniformità del momento fa parte di un contesto più grande che è la società liquida e che si rispecchia anche nell’identità culturale. Come aveva previsto Zygmunt Bauman, in questa liquidità c’è una fluidificazione a cui ogni realtà è sottoposta e qualsiasi entità passa dallo stato solido a quello liquido, perdendo la sua definizione.
Penso però che questo fenomeno riguardi tutto il mondo e che le identità singolari e culturali siano in crisi. E sono stati creati senza dubbio rapporti basati sull’inferiorità e superiorità tra popoli e culture.
L’Italia invece sta attraversando un’altra fase, che riguarda un po’ tutte le democrazie occidentali. Penso che siano in crisi, per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale.
Il capitalismo democratico ha creato prosperità e crescita insieme ai diritti sociali e civili. Invece in questo momento assieme al socialismo morto anche il liberalismo è in grande sofferenza. Basta dire che una democrazia che non risponde più ai bisogni degli elettori, a lungo andare, diventa una non-democrazia».
Qual giudizio dai all’integrazione della comunità albanese in Italia?
«La comunità albanese ha avuto un’integrazione trasversale come nessun’altra. Certo, non è accaduto in un giorno, ci sono voluti 30 anni. Non si possono fare paragoni con il presente, sono cambiate tante cose.
Dopo la caduta del muro di Berlino si stava ridisegnando una nuova Europa e questo non riguardava solo i confini geografici. Ora sono aumentati i conflitti e le guerre. E in ogni caso, al di là di ogni retorica, l’Italia spesso è lasciata sola ad affrontare tutti i flussi che per forza di cose arrivano sulle nostre coste».
Il tema dei confini è anche quello scelto per l’edizione 2023 del Festival delle Letterature, “Oltre il confine delle parole”, di cui sei direttrice artistica dalla sua nascita.
«Nell’edizione del 2023 siamo partiti proprio dalla parola ‘confine’, ignorandone il significato geografico. Lo abbiamo considerato non come uno sbarramento insormontabile, ma come un territorio dove diventiamo noi i nostri confini che si spostano, viaggiano e creano nuovi territori. Per tracciare un percorso collettivo dove i limiti non sono più statici ma diventano dinamici.
Il “confine” non è la linea che traccia, ma il limite da valicare per consacrare le differenze e creare uno spazio comune di co-esistenza. Sono sempre più convinta che è l’unico modo per superarle».
Quali progetti futuri hai in cantiere?
«Sto scrivendo un nuovo romanzo, di solito non parlo durante la stesura perché strada facendo cambio tante cose.
Posso solo dire che questa volta è un romanzo tutto italiano. Parole e suolo».
Fine tappa. Sul bancone di BarBalcani
Siamo arrivati alla fine di questo tratto del nostro viaggio.
Oggi al bancone di BarBalcani si leggono rigorosamente i romanzi di Ibrahimi. Ed è proprio l’autrice a consigliarci cosa bere.
«Consiglio rakia, presente quasi in tutti i miei romanzi. Rakia non è semplicemente un superalcolico, questo liquido ha il potere magico di guarire tutto.
E una casa senza rakia non è casa!»
Riprende il viaggio di BarBalcani. Ci rivediamo fra due settimane, per la seconda tappa.
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