S2E28. Chi fermerà la guerra
Gli effetti dell'invasione russa dell'Ucraina si stanno facendo sentire anche sui Balcani, tra ambiguità, divisioni e rischio di destabilizzazione. Ma anche per il futuro dell'allargamento UE
Ciao,
bentornata o bentornato a BarBalcani, la newsletter (e sito) dai confini sfumati.
La guerra è tornata in Europa.
Il 24 febbraio segna un’altra data di non ritorno per la storia di questo continente.
La Russia ha invaso l’Ucraina. Per volere di Vladimir Putin, è stata violata la sovranità di uno Stato indipendente, è stata scatenata una guerra senza alcun pretesto.
La risposta dell’Occidente è stata durissima, rapida, unita.
Le sanzioni economiche hanno colpito Putin e la sua stretta cerchia di oligarchi, l’economia, l’industria, la finanza. La Russia è fuori dai sistemi di pagamento internazionale, da buona parte del commercio globale. La Russia è isolata.
In aggiunta, le potenze mondiali stanno fornendo sostegno militare all’Ucraina, facendo sentire una vicinanza non solo a parole.
L’Unione Europea è diventata un punto di riferimento e un attore imprescindibile, che ha saputo dimostrare un’unità quasi impensabile fino a solo qualche settimana fa.
A Bruxelles si sono allineati anche la maggioranza dei Paesi balcanici.
Slovenia e Croazia, membri UE, stanno spingendo per la risposta più decisa possibile dei Ventisette. Montenegro, Albania, Macedonia del Nord e Kosovo hanno condiviso le stesse sanzioni dell’Unione e degli altri partner.
Ma i Balcani, a 20 anni dalla fine delle guerre, rimangono una regione di divisioni. La Serbia non riesce a scrollarsi di dosso un atteggiamento ambiguo, mentre la Bosnia ed Erzegovina dimostra quanto la destabilizzazione russa possa ancora far paura.
Di tutto questo ne parliamo oggi con Giorgio Fruscione, politologo dell’ISPI (Istituto per gli studi di politica internazionale) e uno dei più lucidi analisti di queste dinamiche.
[È bene ricordare che questa conversazione è datata 3 marzo 2022 e, nel mezzo di una guerra, gli scenari possono cambiare da un giorno all’altro]
Instabilità ed ambiguità
Partiamo dalla Bosnia. L’UE ha mobilitato 500 soldati di riserva dell’operazione EUFOR Althea, per mantenere la stabilità. Qual è il pericolo?
«Il pericolo c’è da prima del 24 febbraio, quando è iniziata l’invasione russa dell’Ucraina. Diciamo che l’invio del personale EUFOR ha avuto una pessima tempistica e una tragica casualità, perché era stato precedentemente accordato.
È però un messaggio chiaro di precauzione, perché l’Unione è cosciente del pericolo rappresentato dal secessionismo della Republika Srpska e soprattutto del membro serbo della presidenza tripartita, Milorad Dodik.
[Leggi anche: S2E14. Perché la Bosnia non trova pace]
Certo, inutile dire che ora Vladimir Putin ha altro per la testa. L’aiuto pratico, come armi ed esercito, non ci sarà, perché la Russia invade solo i Paesi confinanti.
E poi c’è molto fraintendimento sul rapporto Putin-Dodik. Non è una relazione che si alimenta vicendevolmente, la Russia non ne beneficia a livello geopolitico. Invece per Dodik è politicamente fondamentale dire “Putin è dalla mia parte”.
Al Cremlino interessano i Balcani come sbocco del gas e per l’influenza economica. Il pericolo non è paragonabile all’Ucraina».
In un’intervista hai parlato di gioco della sedia per il presidente serbo, Aleksandar Vučić. Ma cosa rischia a esporsi, contro la Russia o dalla parte di Mosca?
«La musica finirà - se finirà - il 3 aprile con le elezioni in Serbia, per questo non vuole esporsi. Vučic è uno scacchista, quando fa una mossa la valuta sempre prima. Ora è preoccupato di perdere il sostegno dell’elettorato filo-russo.
La posizione internazionale è simile a quella della Cina: condanna le violazioni dell’integrità territoriale dell’Ucraina, ma anche le sanzioni contro la Russia.
Bisogna prendere questo modello, posizionarlo nei Balcani e fare le dovute proporzioni: una finta neutralità nella regione che garantirà di ricucire lo strappo sul voto all’Assemblea Generale dell’ONU.
Ma tra Russia e Cina, il modello politico di riferimento per Vučić è una bella competizione. Gli piace il nazionalismo di Putin come capo della difesa nazionale, ma anche il ruolo di potenza regionale di Pechino.
Anche se succede solo nella sua testa».
[Leggi anche: II. Il poker cinese in Serbia]
Cosa rischia la Serbia a non allinearsi alla politica estera UE sul piano dell’adesione? E il Kosovo potrebbe beneficiare del suo allineamento totale alle sanzioni europee?
«La richiesta di allineamento serbo alle sanzioni alla Russia risale al 2014, ma non è in cima all’agenda di Bruxelles. Direi che sarebbe anche ipocrita volere un allineamento in politica estera quando lo Stato non lo è internamente su tanti dossier.
L’UE dovrebbe premere sugli standard di libertà e sullo Stato di diritto. Belgrado non garantisce nessun livello di libertà di stampa, mentre l’informazione è controllata e manipolata dal governo. Lo Stato di diritto in Serbia è un morto che cammina.
Invece il Kosovo è da sempre allineato sia all’UE sia alla NATO, ma non credo che un’ulteriore esposizione porterà a reali passi in avanti.
Primo perché la NATO è già in Kosovo. E poi perché in passato abbiamo visto che mosse proattive non vengono ripagate dall’UE: dopo la risoluzione della disputa di confine con il Montenegro del 2015, non è seguita l’abolizione del regime dei visti promessa».
Quale futuro per l’allargamento dell’UE
L’UE ha lasciato un cono d’ombra nei Balcani, non chiudendo la questione allargamento quando c’era l’occasione. Ora c’è il rischio che Putin destabilizzi la regione per rendere più vulnerabile l’UE?
«Credo che l’influenza russa abbia già destabilizzato politicamente la regione, attirando parte degli elettorati di Serbia, Montenegro e Bosnia, nella Republika Srpska.
Intanto la politica sta spostando il baricentro su elementi poco realistici. Sarebbe fuori luogo pensare che questa Russia possa essere un punto di riferimento per popolazioni che sono più vicine all’UE, geograficamente, economicamente e anche politicamente, almeno fino a qualche anno fa.
Si tratta di un modello autocratico d’importazione».
[Leggi anche: XLV. Lo spettro dei Balcani passati]
Intanto arrivano le richieste di adesione da Ucraina, Georgia e Moldavia. In particolare sul fascicolo Kiev, un grande ruolo se lo sta ritagliando il premier sloveno, Janez Janša. Perché?
«Quella di Janša è una posizione interessante, che mi ha stupito.
Si tratta comunque sia di un’adesione ai valori NATO, sia di una questione di allineamento interno all’UE con interessi specifici, insieme a Paesi baltici, Bulgaria, Romania, Repubblica Ceca e Polonia.
Soprattutto sta riuscendo a coronare il desiderio politico della Slovenia di contraddistinguersi non come Paese balcanico, ma mitteleuropeo.
Janša vuole anche partecipare al gruppo di Paesi dell’asse sovranista, legato alla chiusura sulla politica migratoria, ma anche all’avversione a un certo modello di democrazia».
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Ma i Balcani non rischiano di sentirsi traditi se intanto non si accelera sui capitoli della Macedonia del Nord e dell’Albania e anche sui negoziati con il Montenegro?
«Si dice che quando arriva un nascituro, uno dei genitori potrebbe amare più il neonato che il partner. Ma l’amore non può essere diviso, solo moltiplicato.
Sostenere l’Ucraina non significa smettere di sostenere i Paesi balcanici.
Il pensiero “eh, ma allora, io?” è legittimo, ecco perché anche loro meritano la corsia preferenziale.
Il caso ucraino è un simbolo e legato al momento delicato della guerra, ma non esclude quanto fatto dai Paesi balcanici a livello di integrazione europea.
Speriamo sia un momento propizio, in cui l’essersi attivati in senso geopolitico sia coerente con un’accelerazione nell’integrazione dei Balcani occidentali».
[Leggi anche: S2E9. Speravamo nel sole. Ha diluviato]
Finiamo da dove abbiamo cominciato. La Bosnia, che era già in difficoltà, ora si trova più in pericolo di prima. Come si può farla tornare sui binari della prospettiva UE?
«La Bosnia ha bisogno di una riforma, è ostaggio delle tre visioni che attanagliano il Paese e inconciliabili tra loro: i serbi la tutela di un sistema centrifugo post-Dayton, i bosgnacchi più centralità, i croati una terza identità.
Per tornare a una prospettiva europea, bisogna potenziare il supporto ai partiti civici e sganciare il Paese dalle logiche di Dayton, cioè dell’etno-nazionalismo.
La questione dell’uguaglianza di ebrei e rom rimane centrale, perché il sistema attuale non permette loro di essere eletti alla Presidenza. La Bosnia non deve più essere il Paese dei tre popoli costituenti.
In questo momento, non è un Paese per bosniaci».
Fine tappa. Sul bancone di BarBalcani
Siamo arrivati alla fine di questo tratto del nostro viaggio.
La tappa di oggi finisce così, «con una rakija più forte» e con la voce di Goran Bregović.
Dalla Bosnia all’Ucraina, facendo il giro di tutta l’Europa. La libertà non sarà mai soffocata dalla tirannia. È l’ora della Resistenza.
#StandwithUkraine
“Una mattina mi son svegliato e ho trovato l’invasor.
O partigiano, portami via, che mi sento di morir […]
E questo è il fiore del partigiano, morto per la libertà”.
Riprende il viaggio di BarBalcani. Ci rivediamo fra due settimane, per la ventinovesima tappa.
Non dimenticare sabato prossimo il nuovo approfondimento nel taccuino del Progetto Langer-Sassoli sul sito barbalcani.eu.
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